Trama e ordito

Benvenuti nel blog della Casina del Rocco laboratorio artigiano ma non solo... un luogo dove i racconti della montagna, del vento e della natura diventano i veri protagonisti.

lunedì 7 gennaio 2013

Vazon

La Befana mi ha regalato la prima scarpinata di questo 2013: direzione Vazon, alta Valle di Susa.
E' mattina e c'è vento, del resto siamo la fabbrica del vento; fa un caldo anomalo e non mi piace. Mi concedo un veloce caffè a Chiomonte, epicentro della strenua lotta dei No Tav, e subito mi assale il solito senso di impotenza che mi chiude lo stomaco: un po' mi vergogno perché io no, tutto quel coraggio di dare battaglia non ce l'ho, eppure amo anch'io questa valle e le sue ferite, sempre più profonde e temo sempre più insanabili e rivedo gli sguardi dei miei amici, velati da una leggera delusione perché in fondo, mi arrabbio troppo poco per tutto quello che capita e che riguarda anche me. Guardo lontano e vedo possibili scenari futuri: il movimento di milioni di tonnellate di terra che dalle viscere della montagna vengono tirate fuori e accumulate un po' più a valle, proprio sotto il posto dove io ho scelto di vivere, e penso che io, quei quindici milioni di tonnellate proprio non riesco a immaginarli, e non posso non avere timore per ciò che può esserci là dentro. E poi penso alle "mie" pecore, alla lana, che mi permette di avere un progetto, di filiera cortissima, che mi fa alzare tutte le mattine e con me tutti gli amici allevatori di questa valle che incominciano a fidarsi di me e del mio sogno e sento che la mia paura è anche la loro, perché è legittimo avere paura...  non c'è niente di male nella paura di perdere ciò che si è costruito con fatica.
Ricaccio il groppo in gola e riprendo il viaggio verso Vazon, una frazione di Oulx. Salgo a fatica su un sentiero pasticciato di ghiaccio e fango: almeno non facesse così caldo! Mi soffermo a guardare gli olivelli spinosi e gli ellebori in fiore e penso ai disperati esperimenti da strega tintora e mi viene da ridere quando tocco le tasche della giacca sempre piene di bacche, cortecce o rametti spinosi.
Proseguo sino alle prime baite, malandate certo, come vuole la migliore tradizione architettonica montanara, alcune risalgono al 1700 e sono tenaci come i vecchi sdentati, resistono al tempo che passa: potessi diventare parte di questo silenzio, lontano dalla presunzione e dal pregiudizio che ci inchioda a sentenze senza appello, lontano dalle spiegazioni e dalle chiacchere di cui siamo pieni per non ammettere che in fondo non abbiamo niente da dire, lontano dalle frustrazioni e dai frustratoi che ci siamo costruiti... Ma non mi piace scappare e allora vado avanti.
Di malanimo affronto l'ultima salita e ho fame; mi aspetta La Chardouse, un rifugio con il nome di un fiore timido, una baita antica, sapientemente restaurata e gestita da gente giovane e gentile e da un cane che oggi, ma solo oggi mi garantiscono, si è svegliato dal lato sbagliato della cuccia ed è un po' malmostoso.
Mangio di gusto e guardo la "carlina" appesa alla parete, la chardouse o carlina acaulis, una pianta perenne con un grande capolino che in previsione del maltempo chiude le brattee e tanti saluti! Si riapre solo quando il sole torna a splendere e il peggio è passato: per questa sua peculiarità è stata usata da generazioni di montanari come igrometro oltre che come amuleto contro gli spiriti della notte e i malefici delle streghe.
Si è fatto pomeriggio pieno e devo rientrare, lasciare il pacifico borgo antico e tornare, c'è un bel sole caldo che tramonta e la carlina è aperta, sorridente e fiduciosa in un tempo sereno. Sono più ottimista: sì che ce la faremo a salvare questo nostro tempo, arriveranno cose nuove e assieme ad esse arriverà anche il coraggio per ripensarle e cambiarle, ciascuno a proprio modo, io ho scelto di salvare e difendere la lana della Valle di Susa: almeno quindici milioni di tonnellate di lana, che ora riesco a immaginare.

lunedì 31 dicembre 2012

L'alba di un nuovo giorno

Mentre il vecchio 2012 sta per finire, mi sento in dovere di fare degli auguri speciali alla nostra Valle di Susa: una terra che amo da sempre e che è un pò come me, defilata, sobria e difficile da decifrare.  Amo l'asprezza dei suoi paesaggi che mi hanno accolta, i misteri del passato che urlano dalle pietre il diritto ad una cittadinanza in questo nostro presente; amo la bellezza del suo grande parco e delle sue montagne, la natura selvatica che tutte le notti irrompe nel mio spazio fregandosene dei paletti che io mi ostino a mettere a difesa del mio privato angolo di civiltà - ma quale civiltà?

Ma soprattutto amo i Valsusini e la loro lotta contro quel maledetto treno, una lotta incompresa e troppo spesso strumentalizzata: e mi commuove il coraggio della difesa di questa terra che anch'io amo e che è  futuro per i figli che già ci sono o che verranno. Proprio loro, i montanari con la schiena dritta e la testa ben fatta oltre che ben piena, questi Valsusini incazzati perché, loro sì che hanno le prove provate dell'inutilità delle cattedrali nel deserto, perché gli hanno devastato un angolo di mondo concentrando in pochi chilometri una quantità di mostri veleniferi da reggere il confronto con la più tremenda delle bolge dantesche, perché hanno studiato le carte e ormai conoscono tutto del loro territorio: sono imprenditori, impieganti, operai, geologi, fisici, meteorologi, musicisti, insegnanti, professori, avvocati, funzionari che hanno passato notti a discutere e cercare soluzioni, compromessi, un dialogo educato e un confronto franco...
 Perché, sì, i Valsusini sono persone educate, pacifiche e informate: alcuni vanno a messa la domenica e fanno veglie di preghiera affidando a Dio l'amore per la propria terra, altri più laicamente lavorano per abbattere i muri dell'incomprensione con pazienza e dedizione, qualcuno grida i suoi no con violenza e stupisce che a farlo non sia un ragazzo dal volto coperto, ma un vecchio nato in qualche muanda in una borgata abbarbicata ai fianchi della montagna, carico di anni e di esperienze, bruciato da questo amore per una terra che stenta a far riconoscere la propria dignità oltre il banale appellativo di "corridoio".
La Valle di Susa non è un corridoio, è la via Francigena, signori miei, da qui è passata la Storia: popoli, lingue, fedi, feste e carestie...
Qui tutti sono custodi di un pezzo di storia, di una leggenda, di un pezzo di bosco: qui il senso di appartenenza è particolarmente forte e c'è il desiderio di comunicarlo, contagiando anche il più pavido dei cuori. I Valsusini ti accolgono e rispettano anche le tue paure, non ti vogliono convincere a tutti i costi e non ti giudicano per le tue indecisioni; non altrettanto hanno ricevuto in cambio.
Certo fra di loro non ci sono santi e io non sono qui per assolvere gli errori che pure ci sono stati, perché è nella natura di tutte le storie, ma il mio pensiero in questa notte di fine anno è soprattutto per loro, che riderebbero di queste parole un pò retoriche e di questa difesa debole, troppo di pancia.
Del resto le carte, le assemblee, i cortei, i convegni sono lì a testimoniare il loro pensiero, spero invece che i Valsusini assolvano questa difesa appassionata e vera di quella che sento essere la mia Gente.
Auguri a tutti!

sabato 3 novembre 2012

La storia: un mercato a Km 0

 Una sera dello scorso giugno ho ricevuto una telefonata dei miei amici Clara e Roberto: mi invitavano a partecipare ad uno esperimento, un mercato km 0 dei produttori e artigiani della Valsusa. Ho accettato con entusiasmo ma confesso, con qualche perplessità: un'artigiana della lana sulla piazza di Almese, tutti i sabati a condividere gioie e dolori di un salto nel vuoto con chi di fiere e mercati è già esperto e sa gestire il pubblico? Panico:"Sarò in grado? Riuscirò a trasmettere ai miei compagni d'avventura e ai possibili clienti l'entusiasmo per un mestiere antico e lento come quello del feltraio e del tessitore? In fondo io sono ancora alle prime armi, alle prese con una vita nuova tutta da costruire dietro la lana sporca, l'acqua bollente e le matasse ingarbugliate da districare."

A distanza di mesi da quell'onda di  panico sono felice di avere accettato la sfida, non solo per gli innegabili benefici alla mia attività, ma soprattutto per le persone che dividono quella piazza con me: gente che crede in un progetto e lotta per il conseguimento dei propri obiettivi;  gente che decresce, che ama i ritmi lenti e mette la faccia a garanzia della bontà del proprio prodotto. Ognuno con la sua storia, perlopiù di fatica, di insuccessi personali, racconti a volte drammatici, altre volte teneri, ogni tanto ci scappa un abbraccio o una lacrima, oppure si ride come si fa fra camerati... e quando si avvicina un cliente, lo si accoglie come se fosse il più prezioso, perché per noi, senz'altro per me, lo è. Nulla è scontato sulla piazza di Almese...

E poi,  si riflette sulla situazione di un territorio tutto da salvaguardare, si discute di strategie per rimanere a galla nel mare magnum di questa crisi e salvare così le nostre attività, ci si consola dei sacrifici, perché sono comuni e in una parola ci si sente subito meno soli.
Di sabato in sabato, quella piazza si è animata di voci, di risa, di colori e di bambini grazie all'impegno di chi ha voluto che questo esperimento prendesse forma e penso primo fra tutti al Laboratorio Civico di Almese e al gruppo di Etinomia Valsusa. Tanti banchetti messi in circolo ad abbracciare la piazza insieme a tutti coloro che vengono a fare acquisti o anche solo a salutare.

La mia matassa ha trovato il bandolo: oggi ho qualche amico in più e al di là di tutto e forse solo per questo, posso affermare che è  un successo. Ci diamo appuntamento su altre piazze che forse non raggiungeremo mai, ma aiuta a sapersi meno soli quando la mattina presto si carica la macchina e si parte.
Vini, pasta, formaggio, pane, marmellate, ortaggi, lana, succhi, frutta, giocattoli in legno, piante sono parte di noi e della nostra storia, tutto a km 0 ma con tanto tanto cuore.
Alla prossima storia di mercato.

domenica 22 aprile 2012

Nuove soluzioni?


Si scrive swapping ma si legge baratto e in tempi di profondo disordine monetario la storia economica ne ha fatto ripetutamente ricorso.
All’inizio furono beni contro beni, merci contro merci in una società che non conosceva moneta e che organizzava i propri scambi su base quantitativa, qualitativa e sul reciproco fabbisogno: storici ed economisti sono concordi nell’affermare che proprio dal baratto -e dai suoi limiti- siano nate le civiltà e l’economia. Il sistema come si è detto, pur rivelandosi efficace, presentava qualche problema, primo fra tutti, i vincoli di tempo: entrambe le merci scambiate dovevano essere disponibili nello stesso tempo e nello stesso spazio. Due prodotti, soprattutto agricoli, potevano essere scambiati solo se il tempo stagionale di maturazione fosse stato il medesimo.
Il cosiddetto baratto mediato o multiplo risolse il problema: una terza merce venne introdotta come valore-ponte, a garanzia  della disponibilità futura  e come rimedio alla deperibilità di una delle due merci: ancora non c’era consapevolezza, ma erano state gettate le basi per la nascita del denaro.
Con un salto temporale di millenni arriviamo agli anni 50 del secolo scorso quando comparve negli Stati Uniti il Corporate Barter , sistema di scambio che si concretizzò negli anni 70 , all’indomani di una crisi economica che aveva lasciato molte aziende con un surplus di magazzino non assorbito dalla domanda di mercato e con problemi di liquidità.
Oggi il baratto rientra nelle strategie di marketing di ben 500.000 società internazionali per aprire nuovi canali di vendita ammessi anche in Italia dai sistemi legislativi sotto la forma di “Compensazione multilaterale”.
Il baratto nelle nostre società, da fenomeno di tendenza, assume sempre più caratteri ecocompatibili e connotazioni di solidarietà, socialità e rifiuto del consumismo, forte del fatto che tutto risulta barattabile dall’abbigliamento all’arredamento, dagli accessori alle vacanze, ma anche prestazioni di lavoro e ore del proprio tempo.
In Italia a Torino, Milano, Roma sono nati negozi, attività e siti web dedicati al baratto dove è possibile trovare di tutto al motto Tutto si riutilizza, tutto si scambia e nulla si butta compresi lo lievito per forno a microonde o il biberon per roditori ma anche figurine, francobolli o… barche a remi: curioso è il fenomeno dei B.B.B., Bed&breakfast-baratto, strutture ricettive che offrono il soggiorno in cambio di lavori manuali da effettuare presso il B&B durante la Settimana del baratto, che si svolge da tre anni nel mese di novembre. È sufficiente avere una “lista dei desideri”, qualcosa da scambiare e il gioco è fatto.
Quando lo scambio diventa occasione di complicità, incontro, relazione di amicizia fondate sulla fiducia e sulla stima si può volentieri fare a meno del portafoglio, se poi c’è anche aria di crisi e ci sente un po’ più soli, allora il baratto può risultare persino terapeutico.  Suggerisco l’istituzione del baratto-party: un pomeriggio da trascorrere con gli amici o i vicini, provando a scambiare ciò che da troppo tempo è chiuso nello sgabuzzino e magari scoprire con sorpresa, che alla fine della giornata si è contenti in due. 

venerdì 9 marzo 2012

Più tempo, per favore!

Meno e meglio: è l’unica soluzione per uscire dalla spirale del debito. Che non è un incidente di percorso, tutt’altro: il debito è stato incoraggiato a tavolino per indurre i consumatori a comprare merci che non si sarebbero potuti permettere. Obiettivo: smaltire la marea di nuove merci prodotte a ritmo vorticoso da tecnologia industriali sempre più avanzate e diffuse in tutto il mondo grazie alla globalizzazione. Il debito serviva a questo: ad assorbire l’enorme valanga planetaria di merci, evitando una crisi di sovrapproduzione”. 


Così Giorgio Cattaneo spiega le linee guida del Movimento per la decrescita felice e le logiche perverse di un consumo suicida.


Che fatica! 
Scardinare logiche di consumo acquisite negli anni è lavoro impegnativo, soprattutto se devi quotidianamente convincere i clienti che una produzione ragionata e misurata non può rispondere ai ritmi di un mercato onnivoro.
Il feltro ha un ritmo, lento che si nutre di gesti antichi, precisi e rispettosi della materia viva che è la lana.
Le lane si lavano, si cardano, si tingono, si lavorano, si trasformano… ma ci vuole tempo: un tempo dilatato che sia rispettoso dell’artigiano e della materia che egli ha scelto di lavorare. Un lavoro ben fatto ha bisogno di tempo, tanto più se questo stesso lavoro nasce da un “ritorno” a materiali semplici e a modalità produttive lente perché manuali (una scelta, quella della produzione manuale che non può e non deve essere colpevolizzata) spesso incontrollate nei possibili risultati. E se sperimentare ha un costo, è evidente che quest'ultimo è rappresentato da un investimento in termini di tempo spendibile al conseguimento di un risultato soddisfacente.
Il problema del rapporto di "acquisto felicemente decresciuto" sta proprio qui: nella consapevolezza che il lavoro creativo manuale ha un tempo che non è quello della quantità fine a se stessa e del consumo coatto; che è possibile non nutrire ambizioni da multinazionale e che dietro al lavoro che si è scelto per passione può anche esserci un pensiero rivolto alle reali esigenze del pubblico verso il quale c’è, prima di tutto, rispetto. Appunto. 

Per tutti coloro che fossero interessati all'argomento, consiglio una visita al sito:

venerdì 13 gennaio 2012

La Candelora

"Se l'ouers fai secha soun ni, per caranto giouern a sort papì"...
Antichi detti, antiche verità - se l'orso fa asciugare la sua tana, poi non uscirà più per quaranta giorni. Ossia l'orso come marcatore meteorologico: se esce dalla tana per il troppo tepore a fine gennaio poi per il freddo che arriverà in ritardo non uscirà per almeno altri quaranta giorni.

Queste giornate di tiepido gennaio mi hanno portata a fare qualche ricerca sul periodo della Candelora e qui mi sono imbattuta più volte, seppur in contesti diversi, nella mitica figura dell'orso.
La Candelora entra in relazione con l'orso non solo ad Aosta (Fiera di S. Orso) ma anche in Valle di Susa con il ballo dell'Orso che si svolge a Urbiano di Monpantero.

Un uomo vestito da orso e la cui identità è sconosciuta, viene condotto lungo le strade del paese dove è fatto oggetto di invettive e scherzi da parte della folla. Ad attenderlo al centro del paese, c'è la ragazza più bella, pronta a ballare con lui; terminate le danze, alcuni uomini che rappresentano i cacciatori, scacciano l'orso e con esso l'inverno.

L'orso, figura che fa parte di un vasto universo simbolico che lega le saghe nordiche alla mitologia mediterranea, qui, rappresenterebbe l'inverno e la sua cattura, la fine della brutta stagione.
Associato alla figura della dea Artemide, divinità lunare e notturna, l'orso compare in tradizioni o racconti che sottolineano proprio gli aspetti più pericolosi e inconsci dell'animo umano. Tra le popolazioni siberiane l'orso è associato alla luna poiché scompare in inverno per riapparire in primavera, quando il ciclo vegetativo riprende vigore in connessione alle fasi lunari, ed è anche considerato antenato della specie umana secondo le credenza per la quale tutta la vita dell'uomo è legata alle fasi lunari e dunque l'orso-uomo non può che essere stato creato dalla sostanza lunare o da un atto magico connesso all'astro.
Dalla liturgia cultuale greca, dove l'orso incarna saggezza ed elevazione spirituale, alle leggende sciamaniche Sioux che lo raffigurano come orecchio delle Terra, inteso come memoria di cui egli è custode, sino alle tradizioni eschimesi o giapponesi della regione dell'Hokkaido, la figura mitica dell'orso e il suo risveglio dal letargo percorrono il mondo intero e sono trasversali a tutte le culture.
Più di tutte mi ha suggestionato una tradizione antica, latino-sabellica...
Nella cultura magica religiosa italica, l'orso creatura delle caverne, simboleggia il respiro della terra, ossia l'espressione di tutte quelle forze che provengono dal buio e che tuttavia si pongono a misteriosa protezione del sonno dei bambini: dalla caverna-grembo materno alla protezione della mamma per il proprio cucciolo.

Forse  sarà per questo motivo che quell'orsetto di peluche che teniamo nascosto nell'armadio riesce ancora a intenerirci e a farci sembrare che tutto andrà per il meglio, almeno sino all'indomani mattina?
Dormi bene che la primavera è ancora lontana...

      

giovedì 8 settembre 2011

La cardatura

Lana cardata soffice e calda, pulita e innocente. 


Cardare è un'operazione antica che io compio sempre con molto piacere: la cardatura mette ordine nelle fibre, toglie le impurità, districa le fibre e dispone le fibre tessili in verso parallelo. In breve, cardare significa fare ordine e in questo senso è un perfetto esercizio zen di ricerca di consapevolezza. Gesti ripetitivi antichi come il mondo, che regalano la certezza delle cose sempre uguali anche quando a passare sono i secoli.


Per la cardatura tradizionale si usavano gli scardassi, attrezzi di costruzione famigliare: solo semplici tavolette di legno inchiodate su di un medico per formare un quadrello su cui era fissato con piccole sellerine (chiodini) un pezzo quadrangolare di cuoio, entro cui, attraversanti e a distanza regolare, erano piantati una sorta di chiodi, aperti fatti di filo di ferro reso acciaioso. Si usava con un secondo identico arnese; sul primo, tenuto con i denti rivolti in alto si metteva un piccolo quantitativo di lana e con il secondo attrezzo capovolto rispetto al primo si pettinava con movimenti alternati la  fibra di lana sino a rendere allineati i peli. Prima dello scardasso l'uomo usò il cardo dei lanaioli (dipsacus follonum). 
In provincia di Asti e di Torino operavano abili fabbricanti di pettini da cardatore costruiti con i cardi naturali incollati al legno. Dalle vallate di Susa e del canavese provenivano i migliori cardatori, primi emigranti del lavoro, stagionali che esercitavano anche la professione di filatori.


Nel mio laboratorio ho imparato a cardare utilizzando le spazzole per i cani, pratiche su piccoli quantitativi di lana... 
Per tutti coloro che intendono passare a qualcosa di più professionale suggerisco un bel giro per mercati dell'antiquariato, riservano sempre delle sorprese e forse qualche scardasso è ancora in circolazione in attesa di una nuova stagione.